Caro e onorato amico; non m’era lecito ostinarmi sul testo della mia risposta al ministro, che è rimasta a mani Sue, poiché era un testo che rincresceva a due amici così insigni; e ne ho rifatto la chiusa, mandando jermattina direttamente la mia lettera alla Minerva. Ripetuto suppergiù quanto Ella conosce in sino al punto in cui dicevo ch’Ella probabilmente aspetta a favorirmi delle Sue informazioni ecc., ho chiuso con le seguenti parole:
‘Ormai però codeste informazioni
devono pur giungermi quanto prima
e specialmente versare intorno alla
distribuzione dell’opera e ad altre
vitali considerazioni e proposte, da
sottomettere poi alla decisione di E. V.’
così ho evitato il pericolo di risoluzioni subitanee. Ma del rimanente, come potrei io accettare l’uffizio che mi si vorrebbe ora commesso? Ho io mai accennato ad assumerlo? E son forse passati impunemente per me i quindici anni dacché sono a questo sbaraglio, secondo che si vede dalla mia Lettera al , più volte stampata, e ultimamente, con qualche aggiunta nella terza puntata ai supplementi all’? È una Lettera che dice non poco anche per altre ragioni!
Tutt’intiera la parte dell’opera a cui si riferisce la prima sezione dei , è di assoluta spettanza del . E in quei si contengono delle dubitazioni assai gravi e ormai antiche, le quali spero sempre si risolvano in entità da non ispaurirci, ma che non ci fu mai dato di appurare, né a me in verun modo lo sarebbe. Posso tutt’al più giovare agli amici con qualche considerazione d’ordine comparativo che mi sono andato via via annotando.
Ora, durante questa lunga serie d’anni, il non ha mai smesso la sua attitudine simpatica; ma in realtà ogni sua comunicazione, sia scritta e sia parlata, ogni sua partecipazione effettiva s’è dovuta ridurre a così scarsa cosa, da non parer credibile. In parte so e in parte presumo, che non sia stato effetto della sua volontà e anzi che a lui ne debba esser forse dispiaciuto più che non a me; e io, per non complicare le cose, non ne volli mai far motto neanche a Lei, pur nei più confidenziali colloqui. Ma bisogna finalmente parlar chiaro; e ho d’altronde ragion di supporre, che certe difficoltà, in cui il valentuomo si dibatteva, sieno venute cessando. S’aggiunge che il non è più quello dei tristi tempi. È forse tale c’ammette la speranza d’una partecipazione alla spesa richiesta dell’opera che ha la sua ragione statistica allato alla ragione storico-filologica. È dunque tutta del la parte statistica dell’impresa; ne deve aver lui tutta intiera la direzione, tutto intiero il merito, deve addirittura portare il suo nome.
Quanto alla parte storico-filologica, nel 1890 s’era pensato, col e il , a farne del povero il presidente onorario; oggi il presidente onorario ne deve assolutamente il conte . Il presidente effettivo ne deve naturalmente essere il vicepresidente dell’, che è anch’egli un reputato romanista, e vicepresidente . E io che nel 1890 già aveva più di sessant’anni e non risiedo in Roma e anzi non ci capito mai se non «a ogni morte di vescovo» e sono in affanno continuo perché non mi sia tolto di finire qualche lavoro (ormai inoltrato e anche non estraneo alla toponomastica italiana, non intendo certo ricusarmi alle prestazioni occasionali cui piacesse ai colleghi di chiamarmi ma non devo assumere impegni che ormai equivarrebbero a una specie di suicidio.
Quando vede il , La prego di salutarmelo molto e di ringraziarlo delle sue buone lettere; e insieme La prego di volermi sempre, scusando l’orribile fretta con cui sono costretto a scriverLe,